Mobbing
Il mobbing è, nell'accezione più comune in Italia, un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, etc.) perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell'insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.
Più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro.
Indice o
2.1 La pratica del mobbing sul
posto di lavoro ·
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Note |
Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l'obbiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo. In etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro predatore.
Mobbing è un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse". Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, equivalente pressappoco all'italiano "plebaglia".
Al termine mobbing è correlato anche il lemma - di uso nello slang statunitense - mobster, che indica genericamente chi appartenga alla malavita o adotti un comportamento malavitoso. Sono inoltre collegati i termini: "mobber", per indicare colui che perpetra l'attacco, e "mobbed" per indicare la vittima.
Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro,
che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si
utilizzano lemmi più specifici: harassment
(utilizzato anche per molestie domestiche), abuse
(maltrattamento), intimidation
(intimidazione).
Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo all'azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all'esterno di irregolarità sul posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.
Per potersi parlare di mobbing, l'attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
Va peraltro sottolineato che l'attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno nel tempo. In effetti, l'ingiustizia del danno, vale a dire dell'evento lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento giuridico, deve essere sempre ricercata valutando unitariamente e complessivamente i diversi atti, intesi nel senso di comportamenti e/o provvedimenti.
Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico e mobbing ambientale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale dialogo e del rispetto.
Si parla di mobbing verticale, o quando l'attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo, nella speranza di fare carriera, o semplicemente per "quieto vivere". Si definisce invece mobbing orizzontale quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell'organizzazione lavorativa per motivi d'incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o religiosi oppure perché diversamente abile; generalmente la causa scatenante del mobbing orizzontale non sono tanto le incompatibilità all'interno dell'ambiente di lavoro quanto una reazione da parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell'ambiente e delle attività lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come "capro espiatorio" su cui far ricadere la colpa della disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti.[1]. Il mobbing strategico si ha quando l'attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali). Il Bossing è un termine che indica azioni compiute dalla direzione o dall'amministrazione del personale e che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice eliminazione di una persona indesiderata. Viene attuato con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile.
In ogni caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nelle loro conseguenze, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi, ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità.[2] Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente di lavoro è stato alla fine degli anni ottanta lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo definiva come una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa.
Secondo un'indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere vittima di mobbing; l'Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%. Alcuni contratti sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania, prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati.
I sindacalisti della Volkswagen furono i primi a introdurre nei contratti di lavoro un capitolo sul mobbing con indennità e strumenti di prevenzione (i centri d'ascolto aziendali in particolare)
La pratica del mobbing sul posto di lavoro
La pratica del mobbing consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l'attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull'accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra). Insomma, un sistematico processo di "cancellazione" del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Altri elementi che fanno configurare il mobbing, possono essere "doppi sensi" o sottigliezze verbali quando si è in presenza del collega oggetto di mobbing, cambio di tono nel parlare quando un superiore si rivolge al collega vittima, dare pratiche da eseguire in fretta l'ultimo giorno utile. Un esempio può essere il seguente: un collega, in presenza di altri colleghi, li invita ad una cena chiedendo ad ognuno di loro "allora te l'ha detto Caio che stasera vieni con noi a cena?", mentre al collega mobbizzato dice invece "tu non vieni?". Molte volte succede che l'"ordine" di aggressione al collega mobbizzato venga dall'alto e sia finalizzato alle dimissioni di qualcuno. In questo caso i colleghi che effettuano il mobbing eseguono servilmente le disposizioni del superiore anche se il collega mobbizzato non ha fatto niente di male a loro. Tutte queste situazioni ed in genere gli attacchi verbali non sono facilmente traducibili in "prove certe" da utilizzare in un eventuale processo per cui è anche difficile dimostrare la situazione di aggressione.
Secondo l'INAIL, che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo, qualificandolo come costrittività organizzativa, le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l'esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.
È quindi chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
Le azioni rientranti nella categoria della costrittività organizzativa coinvolgono direttamente e in modo esplicito l’organizzazione del lavoro e la posizione lavorativa e possono assumere diverso rilievo ai fini del riconoscimento della natura professionale del danno conseguente (Paolo Pappone et Al. Patologia psichica da stress, mobbing e costrittività organizzativa.)
La giurisprudenza dispone più frequentemente e facilmente il risarcimento del danno biologico, ma non del danno morale; il mobbing deve aver procurato uno delle malattie documentate in letteratura medica per avere diritto a un'indennità dall'azienda.
In Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello Statuto dei Lavoratori).
Questa pratica è condotta all'interno delle dinamiche relazionali coniugali e familiari ed è finalizzata alla delegittimazione di uno dei coniugi e alla estromissione di questo dai processi decisionali riguardanti la famiglia in genere e nello specifico i figli[3].
Il mobbing familiare più frequente è quello che coinvolge le famiglie separate e viene messo in pratica da parte del genitore affidatario nei confronti di quello non affidatario al fine di spezzare il legame genitoriale nei confronti dei figli. Secondo alcuni questo comportamento può provocare nei figli la PAS (Parental Alienation Syndrome), ovvero la Sindrome da Alienazione Genitoriale, sindrome il cui riconoscimento nei tribunali[4] e da parte della comunità scientifica internazionale è oggetto di controversie e polemiche.
Recenti studi e ricerche, come quelli dell'Osservatorio Permanente Interassociativo sulla Famiglia e Minori dell'Istituto degli Studi Giuridici Superiori o come quello dell'Osservatorio della Federazione Nazionale per la Bigenitorialità hanno evidenziato come questo particolare tipo di mobbing stia diventando sempre più frequente nelle relazioni coniugali contraddistinte da una intensa conflittualità.
In alcuni casi, il mobbing familiare si presenta attraverso una serie di strategie "persecutorie" preordinate da parte di uno dei coniugi nei confronti dell'altro coniuge, allo scopo di costringere quest'ultimo a lasciare la casa coniugale o ad acconsentire, ad esempio, a una separazione consensuale, pur di chiudere rapporti coniugali fortemente conflittuali[5].
Dal mobbing familiare si distingue, secondo un autore, il "mobbing genitoriale", termine che sarebbe da riservarsi alle contese in corso di separazione coniugale in cui vi siano comportamenti finalizzati ad escludere l'altro genitore dall'esercizio della propria genitorialità. Il c.d. "mobbing genitoriale" sarebbe riconducibile a quattro casi (spesso erroneamente citati come casi di mobbing familiare)[6]:
Lo psicologo del lavoro Harald Ege[7], obietta che "Non ha alcun senso parlare di mobbing al di fuori del contesto lavorativo" e conclude: "Lasciamo però da parte il termine mobbing per ciò che riguarda quei conflitti che si generano al di fuori di quel che succede sul posto di lavoro: chiamiamo quest'ultimi con il proprio nome e affrontiamoli con gli strumenti più adatti al caso specifico!" Quindi, secondo Ege, il concetto di mobbing familiare non sarebbe scientificamente attendibile.
Forme di mobbing, orizzontale o verticale, raramente rilevanti dal punto di vista giuridico, sono distinguibili anche in varie tipologie di aggregazione sociale non legate a professioni o ambiti lavorativi, ad esempio: studenti, amici, colleghi, gruppi o bande giovanili, circoli sportivi, associazioni amatoriali, società filantropiche ecc. Di solito lo scopo è quello di indurre un membro non gradito all’autoallontanamento spontaneo dal gruppo o associazione, attraverso tutta una serie di pressioni e vessazioni di tipo morale o psicologico. La materia in questione interessa di norma più l’analisi psicologica (psicologia dei gruppi) e sociologica (sociologia delle relazioni interpersonali) che non quella giuridica. Possiamo prendere come esempi anche gli atti denigratori all'interno dei reality-show (es. Grande Fratello).
Il mobbing a scuola è forma di “vessazione di branco” che spesso si confonde con il bullismo ovvero con una sorta di bullismo di gruppo organizzato ai danni di un compagno di classe. Esiste anche in ambiente scolastico, benché più denunciato sui media che studiato e analizzato, una forma particolare di mobbing “dall’alto”, ossia praticato da un insegnante a danno di uno o più allievi, attraverso: espressioni sistematicamente denigratorie e/o provvedimenti disciplinari persecutori, valutazioni o giudizi ingiustificatamente negativi. Fenomeno in aumento, anche se poco conosciuto e ancor meno studiato, il mobbing di studenti più o meno organizzati nei confronti di insegnanti ritenuti deboli e non in grado di mantenere la disciplina in classe, mobbing che tende a voler nascondere le proprie mancate responsabilità nei confronti dello studio, della disciplina e del rispetto delle regole.
Il mobbing non è una malattia ma può esserne
In Italia il numero di vittime del mobbing è stimato intorno a 1 milione e 200 mila, che salgono a 5 milioni se si considerano anche le famiglie. In Svezia e Germania circa mezzo milione di persone hanno dovuto ricorrere al prepensionamento o a cliniche psichiatriche a causa del mobbing.
Negli ultimi dieci anni i casi di mobbing denunciati hanno avuto un incremento esponenziale. Il mobbing ha un forte costo sociale stimato il 190% superiore al salario annuo lordo di un dipendente non mobbizzato. In Svezia si stima che il mobbing sia causa di un 20% dei suicidi.
Nei primi anni '90, lo psicologo svedese tenne in Italia una serie di conferenze che diedero inizio al dibattito nazionale sul mobbing con una decina d'anni di ritardo rispetto a Svezia e Germania. Leymann estese il dibattito sul mobbing dapprima in Germania e poi nel resto dei Paesi UE.
Un libro verde del Parlamento Europeo, "Il mobbing sul posto di lavoro", del 16 luglio 2001, introduceva il dibattito in tema di mobbing in sede comunitaria.
La successiva risoluzione del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro —2001/2339(INI)— è uno dei primi riferimenti normativi in materia, non recepito nell'ordinamento italiano.
La risoluzione non è stata seguita da una direttiva europea, che obbligasse gli Stati membri a legiferare in tema di mobbing.
In Italia non esiste una legge in materia di mobbing e quindi il mobbing non è configurato come specifico reato a sé stante. Gli atti di mobbing possono però rientrare in altre fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali le lesioni personali gravi o gravissime, anche colpose che sono perseguibili di ufficio e si ritengono di fatto sussistenti nel caso di riconoscimento dell'origine professionale della malattia. La legge italiana disciplina anche il risarcimento del danno biologico, associabile a situazioni di mobbing.
Una sentenza del Tribunale di Pisa [8] afferma la non computabilità nella durata della malattia delle assenze riconducibili alla violazione dell’obbligo aziendale di non aggravamento del compromesso stato di salute del dipendente.
Un successiva sentenza della Corte di Cassazione, la n. 572 del 2002,[9] stabilisce che un periodo di malattia eccedente i limiti previsti nel Contratto Collettivo di riferimento non è giustificato motivo soggettivo di licenziamento, se la malattia o invalidità permanente del lavoratore hanno una causa prevalente nell'attività lavorativa, oppure se, sopraggiunte per cause indipendenti, trovano nell'attività lavorativa una concausa aggravante, e il datore non adibisce il lavoratore ad altre mansioni, purché sussistano in azienda [10].
La non computabilità nella durata del periodo di malattia può essere interpretata come estensione de facto del limite dei 3 mesi, oltre il quale i CCNL legittimano il licenziamento, oppure in un completo onere a carico del datore di lavoro, che deve corrispondere il 100% della retribuzione per i periodi di assenza non coperti dall'indennità di malattia. Nel primo caso, quota superiore al 50% della retribuzione è a carico dell'ente previdenziale, come previsto per le assenze prolungate. L'INPS può, in generale, però esercitare diritto di rivalsa su chi ha determinato la malattia/invalidità e il pagamento della relativa indennità, come chi causa un incidente stradale, o, nel caso in esame, il datore di lavoro.
L’accertamento del danno da mobbing esige "una valutazione unitaria degli episodi denunciati dal lavoratore, i quali raggiungono la soglia del mobbing ove assumano le caratteristiche di una persecuzione, per la loro sistematicità e la durata dell’azione nel tempo"[11].
Secondo l’avviso della Corte Costituzionale, infatti, gli atti posti in essere possono risultare "se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico", assumendo, purtuttavia, "rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto" e risolvendosi, normalmente, in "disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico".[12].
In effetti, il mobbing sul posto di lavoro può realizzarsi con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Quindi l'esistenza della lesione del bene protetto e delle conseguenze deve essere valutata nel complesso degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Corte di Cassazione, sentenza n. 4774 del 6 marzo 2006, da Legge e Giustizia Lettera telematica di notizie - Direttore responsabile Domenico d'Amati).
La più frequente azione da mobbing consiste nel dequalificare il lavoratore per demotivarlo, farlo ammalare e costringerlo alle dimissioni, considerando che, sul piano giuridico, il demansionamento è vietato perché costituisce sempre lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione; il danno che ne deriva è suscettibile di per sé, di risarcimento (Cass. sez. lav. 12 nov. 2002, n. 15868; Corte d’Appello di Salerno, sez. lav., 17 aprile 2002).
Presso il Parlamento italiano sono depositati diversi disegni di legge sul tema; manca invece un orientamento comunitario in tema di mobbing. Un primo disegno di legge del 21 marzo 2002, presentato da senatori di Rifondazione Comunista, è stato ripreso da una commissione tecnico-scientifica nominata dal Ministro della Funzione Pubblica Franco Frattini, durante il primo governo Berlusconi. La Commissione aveva l'incarico di accertare le cause di improduttività del personale nella Pubblica Amministrazione ed era giunta a definire un protocollo medico oggettivo del quale il giudice del lavoro poteva avvalersi per accertare le cause di mobbing.
Il disegno di legge, poi bloccato, conteneva la proposta di spostare la competenza delle cause di mobbing dai tribunali ordinari alle preture del lavoro, con sentenze immediatamente esecutive, e opponibili nel termine di 15 giorni, riportando le cause di mobbing dai tempi di una causa civili alla celerità dei contenziosi in materia di diritto del lavoro. La legge definiva il responsabile per la sicurezza, non la controparte sindacale, ma il riferimento in azienda per le vittime di mobbing, prevedeva rapidità nei risarcimenti, e conferiva al giudice poteri di intervento nell'organizzazione aziendale per porre fine a pratiche di mobbing.
La Costituzione italiana (artt. 2-3-4-32-35-36-41-42) tutela la persona in tutte le sue fasi esistenziali, da quella di cittadino a quella di lavoratore. Inoltre, sul datore di lavoro grava l’obbligo contrattuale, derivante dall’art. 2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente. La Corte di Cassazione ha ritenuto[13] che un’iniziativa diretta alla repressione, non già alla prevenzione dei fatti mobbizzanti non è idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall’art. 2087 cod. civ. Molti comportamenti che caratterizzano il mobbing trovano inoltre una precisa connotazione in numerosi articoli del codice penale (abuso d'ufficio, percosse, lesione personale volontarie, ingiuria, diffamazione, minaccia, molestie)
In Germania sono diffusi sul territorio centri d'ascolto a cui rivolgersi in caso di molestie morali nelle aziende di maggiori dimensioni (come la Volkswagen). Sempre in Germania è previsto il prepensionamento a carico dell'azienda per i dipendenti riconosciuti vittime di mobbing.
In Svezia c'è la prima e più avanzata legislazione che prevede un reato di mobbing. La Svezia ha in generale un'attenzione ai diritti umani che ha favorito il dibattito sulle molestie morali.
Gli Stati Uniti hanno una delle prime e più severi leggi sulle molestie sessuali sul posto di lavoro, ma poca attenzione per questa materia
Il termine
mobbing presenta alcune difficoltà nella definizione.
Prima di tutto è confuso con molti altri comportamenti che avvengono negli
uffici: violenza psicologica, terrorismo psicologico (psychological
terrorization).
Bullismo
(bullyng): indica forme di terrorismo psicologico esercitate non
esclusivamente sul posto di lavoro ma che possono avvenire a scuola, a casa,
nelle carceri e in caserma; significa "comandare facendo prepotenze e
tiranneggiando nei confronti dei sottoposti"; non è necessariamente
intenzionale può essere provocato da conflitti di personalità e da emotività
incontrollabile, la violenza può essere anche di tipo materiale sulla vittima
comprendendo danni fisici, aggressioni e vandalismo.
Molestie
sessuali (job harassment).
Molestia
morale (harcèlement morale): termine introdotto dalla francese Marie-France Hirigoyen, si
connota per lo più come evento singolo di molestia sessule
o discriminazione raziale (azioni punibili dalla
legge) sul luogo di lavoro concentrata su un soggetto debole o a rischio.
Abuso
lavorativo (work abuse).
Spadroneggiamento (bossing): con questo termine si indica una
sola azione compiuta dell’azienda stessa, dalla direzione o
dall’amministrazione del pesonale (risorse umane),
nei confronti di uno o più dipendenti, quasi sempre con il preciso scopo di
indurli alle dimissioni.
Ostilità cronica
sul lavoro e aggressione aziendale (CWHCA-Chronic Workplace Hostilites and
Corporate Aggression), volenza
tra parigrado (horizontal violence),
amministrazione bruta (macho management), vittimizzazione (victimisation),
violenza leggera (soft vilence). La parola mobbing,
quindi, può essere confusa con molti alrti termini
che indicano comprtamenti vessatori che un soggetto
commette nei confronti di altri soggetti più deboli.
Da un punto di
vista etimologico il termine mobbing ha origine da una locuzione latina mobile vulgus che significa "il movimento della gentaglia, il
fuoco plebeo", infatti, il sostantivo inglese mob
indica "folla, moltitudine disordinata, tumultuante, violenta, marmaglia,
plebe..." e il verbo to mob
indica "attaccare, assalire, malmenare, aggredire". L’aggiunta sel suffisso -ing, operata dal
grande etologo Konrad Lorenz per indicare un tipo di
comportamento animale: quando un gruppo di piccoli uccelli attacca e allontana
un uccello più grande dal proprio territorio. Il termine ha dunque acquistato
maggiore potenza metaforica per esprimere con tutta la forza dell’immagine
dell’assalto e dell’acerchiamento di gruppo, la
situazione di terrore psicologico dovuta all’isolamento della vittima di fronte
all’ostilità degli altri. Negli anni Ottanta il termine venne ripreso dallo
psicologo del lavoro Heinz Leymann, il quale lo
applicò ad un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai e impiegati
svedesi sottoposti ad una serie di intensi traumi psicologici sul luogo di
lavoro.
Da allora in poi
per mobbing s’intendono: tutti quei comportamenti violenti che si verificano
sul posto di lavoro attraverso atti, parole, gesti, scritti vessatori, persecutori,
intenzionali e comunque lesivi dei valori di dignità di personalità umana e
professionale, che arrecano offesa alla dignità e integrità psico-fisica di una
persona fino a mettere in pericolo l’impiego, o di degradare il clima aziendale.
Comunque data la
nuova natura di questo fenomeno non esiste ancora un’universalità di
terminologia a livello mondiale, per esempio in Norvegia, Giappone e paesi
anglosassoni si usa ancora il termine bullismo, mentre in Francia è usato il
termine molestie morali (harcèlement morale).
• Heinz Leymann (1993)
Pioniere dell’analisi della violenza psicologica sul lavoro. Nasce in Germania
nel 1932 e nel 1955 si trasferisce in Svezia dove avvia i suoi studi sul
mobbing lavorativo grazie ai fondi del governo svedese. Fonda a Karlskrona una clinica per il trattamento delle malattie
provocate dal mobbing che chiuse pochi anni prima della sua morte, avvenuta nel
marzo del 1999.
Il terrore
psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e non
etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui
generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una
posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di
continue attività mobbizzanti. Queste azioni si
verificano con una frequenza piuttosto alta (almeno una alla settimana) e su un
lungo periodo di tempo (per una durata di almeno sei mesi).
• Harald
Ege
Ricercatore tedesco che vive e lavora in Italia dalla prima metà degli anni
Novanta. E’ uno specialista in relazioni industriali, ha svolto alcune ricerche
nell’ambito della psicologia del lavoro. A partire dal 1996, all’interno della
sua collana di libi sul mobbing, ha pubblicato gli unici testi in italiano
sull’argomento. Ha fondato a Bologna l’organizzazione no profit Prima,
Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale, che si occupa di asistenza e formazione per vittime della violenza
psicologica sul lavoro.
Con la parola
mobbing s’intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata
attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi,
o superiori.
• Tim Field
Autore inglese che scrive libri sul bullying
lavorativo. Prima di fondare il primo telefono amico britannico per mobbizzati,
Il bullying è la manifestazione di una inadeguatezza (sociale,
personale, relazionale, comportamentale, professionale) proiettata sugli altri
attraverso il controllo, la sopraffazione, il biasimo, l’isolamento ecc. Il bullying viene alimentato dal rifiuto di ammettere la
responsabilità (respingere le accuse, contro-accusare, atteggiarsi a vittima) e
perpetuato in un clima di paura, ignoranza, silenzio, rifiuto, incredulità,
omertà, occultamento e gratificazione (ad esempio promozioni) per il colpevole.
• Marrie France Hirigoyen
Psichiatra, psicanalista e psicoterapeuta familiare.
Il mobbing si
definisce come comportamento abusivo (gesti, parole,comportamento, atteggiamento...)
che minaccia, con la sua ripetizione o la sua sistematizzazione, la dinità o l’integrità psichica o fisica di una persona,
mettendo in pericolo il suo posto di lavoro o degradando il clima di lavoro.
•
Regione Lazio, legge regionale 14/03/2001
Definizione di mobbing. Ai fini della presente legge per "mobbing"
s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel
tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o
privati, da parte di un datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si
caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di vilenza morale. Gli atti ed i comportamenti di cui al comma
1 possono consistere in: pressioni o molestie psicologiche; calunnie
sistematiche; maltrattamenti verbali ed offese personali; minacce o
atteggiamenti mirati ad intimorire ingiustamente o avvilire, anche in forma
velata o indiretta; critiche immotivate o atteggiamenti ostili; delegittimazione
dell’immagine, anche di fronte a soggetti estranei all’impresa, ente o
amministrazione; esclusione o immotivata marginalizzazione dell’attività
lavorativa; attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, e comunque idonei
a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche del lavoratore;
attribuzione di compiti dequalficanti in relazione al
profitto professionale posseduto; impedimanto
sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti
l’ordinaria attività di lavoro; marginalizzazione immotivata del lavoratore
rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento
professionale; esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei
confronti del lavoratore idonee a produrre danni e disagi.
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I
FATTORI DI RISCHIO
La posizione assunta dall’Istituto sul tema delle patologie psichiche
determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro trova il suo
fondamento giuridico nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e
nel Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in base ai quali sono
malattie professionali, non solo quelle elencate nelle apposite Tabelle di
legge, ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa.
Secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di
organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili
di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa
consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si
sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate
o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle
attività lavorative.
I disturbi psichici quindi possono essere considerati di origine professionale
solo se sono causati, o concausati in modo
prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e della
organizzazione del lavoro. Si ritiene che tali condizioni ricorrano
esclusivamente in presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito
organizzativo, situazioni definibili con l’espressione “costrittività
organizzativa”.
Le situazioni di “costrittività organizzativa” più
ricorrenti sono riportate di seguito, in un elenco che riveste un
imprescindibile valore orientativo per eventuali situazioni assimilabili.
ELENCO
DELLE “COSTRITTIVITÀ ORGANIZZATIVE”
Marginalizzazione
dalla attività lavorativa.
Svuotamento
delle mansioni.
Mancata
assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata.
Mancata
assegnazione degli strumenti di lavoro.
Ripetuti
trasferimenti ingiustificati.
Prolungata
attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale
posseduto.
Prolungata
attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali
condizioni di handicap psico-fisici.
Impedimento
sistematico e strutturale all’accesso a notizie.
Inadeguatezza
strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di
lavoro.
Esclusione
reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione
e aggiornamento professionale.
Esercizio
esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
Nel rischio
tutelato può essere compreso anche il cosiddetto “mobbing strategico”
specificamente ricollegabile a finalità lavorative. Si ribadisce tuttavia che le
azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore rivestono
rilevanza assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco sopra
riportato o in altre ad esse assimilabili.
Le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche
strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili
tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di discrezionalità
interpretativa.
Sono invece
esclusi dal rischio tutelato:
Fattori
organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro
(nuova assegnazione, trasferimento, licenziamento).
Le
situazioni indotte dalle dinamiche psicologico-relazionali
comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità
interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a
comportamenti puramente soggettivi che, in quanto tali, si prestano
inevitabilmente a discrezionalità interpretative).
IL MOBBING: ATTACCHI
ALLA SALUTE SUL POSTO DI LAVORO
MOBBING
|
A cura della Dott.ssa Monica Monaco |
Il
lavoro, spesso vissuto solo come necessità quotidiana, rappresenta
potenzialmente anche un'importante componente della vita di molte persone: un
mezzo di realizzazione, di sfida di sé, delle proprie capacità e talvolta
persino di distrazione da problemi personali. A volte però il contesto
lavorativo può trasformarsi in un luogo scomodo, in cui vengono messe in atto
continue aggressioni e vessazioni che possono demotivare, attaccare la salute
psicofisica e persino il Sé e il senso di autostima delle vittime di
comportamenti mobbizzanti.
Il mobbing: dai gruppi di animali ai gruppi di uomini
Il
termine inglese “mobbing ” nasce dal verbo “to
mob” che significa “assalire in massa”.
L’immagine di quanto viene osservato nel contesto di studi dell’etologia, in
relazione allo studio del comportamento di aggressione di gruppi di animali,
spesso di piccole dimensioni, che si uniscono per attaccarne uno di grossa
taglia, è stata trasferita ben presto al comportamento umano. “Mob” è attualmente usato come sostantivo per designare una
“folla dedita a vandalismo o sommossa” e inizialmente fu Konrad Lorenz (1971) che adottò tale parola in ornitologia per
descrivere una coalizione di uccelli della stessa specie che attaccano uno dei
membri considerati pericolosi per la comunità, allontanandolo o perfino
uccidendolo attraverso un’azione definita appunto di “mobbing”. In seguito il
medico Heinemann usò per breve tempo lo stesso
termine per designare un comportamento infantile umano, osservato inizialmente
in ambiente scolastico, che consisteva nell’aggressione di un bambino da parte
di un gruppo di coetanei, quello che in seguito alle prime ricerche
sistematiche su di esso, fu rinominato col termine attualmente ancora in uso di
“bullismo”.
Lo stesso studioso svedese, all’inizio degli anni Ottanta, definì mobbing anche
un comportamento adulto, simile a quello riscontrato a scuola, applicando tale
terminologia questa volta al contesto del lavoro in cui si riscontravano
attacchi da parte di gruppi di adulti verso uno dei propri colleghi. Oggi l’uso
del termine avviene anche in senso più ampio per riferirsi a varie forme di
fastidio sul lavoro comprendenti sia quelle messe in atto da gruppi, tipologie
più simili al bullying , che quelle messe in
atto da singoli, come le molestie, definite anche con termini più specifici
come “harassment”, “bossing”
o “employee abuse”.
Le strategie per la vessazione dei lavoratori
La
principale classificazione delle tipologie di mobbing fa riferimento ai
ruoli, ma comprende due categorie che possono provocare ugualmente disagio e
che possono comprendere simili metodi di persecuzione e molestia più o meno
subdoli.
Esiste
innanzitutto il cosiddetto mobbing gerarchico o verticale , agito da
superiori verso dei propri lavoratori sottoposti. Questi ultimi possono essere
relegati a ricoprire incarichi umilianti oggettivamente o in relazione alla
propria professionalità (dequalificazione), mentre possono essere sottratte
mansioni gratificanti ai mobbizzati, può venir tolta
loro progressivamente ogni autonomia decisionale o, al contrario, li si può
mettere in difficoltà assegnandogli continuamente incarichi lontani dalle
proprie competenze, in modo da metterli a rischio di errori e di conseguenti
rimproveri o lamentele. Essi vengono spesso sottoposti a richiami pubblicamente
o per iscritto, anche per piccolezze o per comportamenti consentiti ad altri o,
se assenti, vengono abitualmente segnalati per ricevere il controllo del medico
fiscale. Agli stessi vengono assegnati uffici e attrezzature di lavoro di
scarsa qualità rispetto al contesto aziendale e al ruolo ricoperto, con
ambienti distanti oppure piccoli e scarsamente illuminati, con telefoni, computer
e stampante che si guastano spesso, sedie e scrivanie scomode e
l’autorizzazione (più o meno esplicita) ad altro personale di far uso abituale
della postazione del mobizzato o di spostare o far
sparire oggetti personali o materiale di lavoro dal tavolo o dalla cassettiera
della vittima, soprattutto in sua assenza.
Altri comportamenti di mobbing riguardano anche l’incoraggiare o
autorizzare comportamenti di disturbo alla salute della vittima, come l’uso
inadeguato di climatizzatori, regolati a temperature troppo alte o troppo
basse, nonostante lamentati effetti sul proprio benessere e sulla capacità
lavorativa o ancora l’utilizzo di deodoranti o di detergenti ambientali che
contengono allergeni segnalati dal lavoratore sottoposto a mobbing o
l’autorizzazione di altri colleghi di stanza a fumare in ufficio. Si può
vessare anche elargendo minori remunerazioni economiche rispetto a colleghi che
svolgono lo stesso lavoro, bocciando costantemente ogni proposta o richiesta
verbale o scritta o ancora attraverso comportamenti di controllo eccessivo
sulle pause, sulle attività svolte o sugli orari di entrata ed uscita. In
genere le motivazioni che spingono a mobizzare in
questo caso possono riguardare antipatie personali, valutazioni di incompetenza
o di improduttività del lavoratore o, al contrario, paura che egli possa
prendere il proprio posto dirigenziale, fino a vendette per rifiuti relativi a
proposte sessuali o conseguenti alla negazione della copertura di operazioni
illegali. Il fine del comportamento vessatorio di questo tipo può essere quello
di indurre il lavoratore a licenziarsi da sé dal momento che non viene più
considerato adeguato o utile al raggiungimento degli obiettivi
dell’organizzazione: si parla in questo caso di mobbing strategico.
Si parla invece di mobbing emozionale quando esso è semplicemente
legato alla prepotenza di un superiore che mira a dimostrare la capacità di
imporre al lavoratore subordinato il proprio potere e la propria supremazia
oppure quando il comportamento è alimentato da opinioni diverse rispetto a
razza, cultura, religione o altri aspetti di vita.
Il
mobbing orizzontale invece è messo in atto dai colleghi, in forme che
possono comportare l’isolamento sociale, la mancanza di collaborazione che non
permette di svolgere i propri compiti, o perfino attacchi alla salute fisica
simili a quelli descritti nella tipologia gerarchica, nonché comportamenti in
grado di minare l’equilibrio psicologico attraverso umiliazioni personali e
ferite alla propria stima di Sé. Si può agire tale mobbing ambientale
fumando abitualmente nonostante le regole limitanti e le richieste di
rispettarle, oppure con altre invasioni e comportamenti di controllo
dell’ambiente, con atteggiamenti di critica ripetuta o tentativi di discredito,
nonché con manipolazioni delle informazioni sia legate al lavoro che da
attività aziendali extralavorative (es. feste aziendali) da cui può essere
esclusa la vittima di mobbing.
Il rischio psicosociale sul lavoro
Le
ricerche di psicologia del lavoro mostrano che esistono alcuni fattori di
rischio psicosociale che possono incoraggiare il mobbing che vanno
valutati per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Tra
questi ultimi, un fattore importante può essere la predominanza di un
genere sessuale in un ambiente di lavoro , dal momento che possono
innescarsi coalizioni nei confronti delle minoranze. I dati statistici mostrano
una lieve prevalenza del mobbing sulle donne, soprattutto in contesti
territoriali dove la cultura non è ancora abbastanza aperta al lavoro femminile
o all’attribuzione alle donne di incarichi di responsabilità.
Un
altro aspetto molto importante è la presenza di una cultura organizzativa
a rischio in cui esistono dei cosiddetti “fattori di facilitazione al
problema” tra cui i più comuni sono una cultura organizzativa tollerante, una
politica del personale insufficiente con presenza di leadership stressanti o
inadeguate a limitare i fattori di tensione. In particolare sono considerati
comportamenti organizzativi che possono agevolare il mobbing:
Anche
l’organizzazione della dimensione ambientale può rappresentare un
fattore di rischio di mobbing, soprattutto per ciò che riguarda la cattiva
gestione degli spazi o l’istituzione di sedi lavorative particolarmente
difficili da raggiungere.
I
casi più frequenti di segnalazione del problema sottolineano l’esistenza di aree
lavorative più predisposte ad essere colpite dal fenomeno , che
comprendono organizzazioni in cui il controllo dirigenziale è affidato a più di
una gerarchia, con grande dispersione nella verifica dei “segnali di rischio”,
ossia dei conflitti costanti che possono rappresentare l’anticamera del
mobbing. Secondo i dati epidemiologici tali caratteristiche appartengono
soprattutto ai contesti di scuole, università, ospedali e istituzioni
religiose.
Il processo di “mobbing”
I
comportamenti precedentemente indicati di conflitto in una certa misura possono
essere parte naturale della vita lavorativa; nel mobbing l’aggressione diventa
abituale e la comunicazione verbale e non verbale diventa sistematicamente
ostile, generando così dei chiari segnali di riconoscimento del mobbing che
riguardano:
-
la sistematicità delle azioni vessatorie che, per parlare di
mobbing, devono essere messe in atto in modo abituale e continuativo per almeno
6 mesi;
- la tendenza a disarmare la vittima, ponendola in condizioni di
sentirsi impotente e incapace di controllare la propria quotidianità
lavorativa, privandola di punti di riferimento e di stabilità;
- la compromissione della reputazione della vittima che può
destabilizzare fortemente il suo equilibrio psicologico; - la compromissione
della prestazione lavorativa del mobbizzato che
non si trova in condizioni di utilizzare le proprie capacità e quindi si trova
in posizioni a rischio di rimproveri, di errori che possono danneggiare
l’azienda, se stesso o terzi.
Il
mobbing è comunque un fenomeno complesso, difficile da delimitare che può
trasformarsi nel tempo: per tale ragione si preferisce parlare di “processo di
mobbing”, rintracciando nel suo cambiamento, sebbene diverso di situazione in
situazione, delle grandi fasi comuni (tabella 1).
Tab. 1 LE 4 FASI CHE SI
SUSSEGUONO NEL PROCESSO DI MOBBING |
FASE 1 La normale conflittualità sul posto di lavoro rimane
costantemente irrisolta, divenendo la “normalità” e crescendo perfino di
intensità. Ciò rappresenta la fase di “trampolino di lancio”, ma non
permette ancora di parlare di mobbing vero e proprio. |
FASE 2 La vittima viene etichettata , dal momento che è
costretta ad assumere atteggiamenti difensivi. In tale fase in genere
cominciano i problemi di salute a carico del mobbizzato
che può somatizzare le tensioni in diversi modi, tra cui le forme più
comuni possono essere disturbi del sonno, crisi di pianto, stati depressivi,
ansia e disturbi digestivi. Altri disturbi fisici derivanti dal mobbing sono
cefalee, tremori, tachicardie, dermatosi, mentre sul piano psicologico altre
ripercussioni riguardano problemi di isolamento e di autostima che possono
aggravarsi fino a portare a non rari disagi psichici gravi in grado di
alimentare anche tentativi di suicidio. Anche se il mobbing non è una
malattia spesso può far ammalare. |
FASE 3 La situazione diventa un “caso”, giungendo all’Ufficio
del Personale. In tali casi spesso si verifica una “resistenza” che si basa
su una tendenza a considerare il soggetto mobbizzato
un soggetto “difficile” e per questo causa del conflitto, giudizio errato
sulla situazione che viene definito errore fondamentale di attribuzione.
|
FASE 4 La persona mobbizzata può essere
spostata o sottoposta a incarichi minori, costretta a lunga malattia o a cure
psicologiche o perfino a licenziarsi o prepensionarsi
per preservare la propria salute psicofisica. |
Alla ricerca di soluzioni antimobbing
Per
quanto riguarda le aziende è particolarmente importante monitorare
costantemente i rischi di mobbing, soprattutto controllando e mediando i
conflitti, gestendoli con eventuali cambiamenti di incarico o spostamenti
ambientali.
Per
i mobbizzati il primo passo necessario spesso è
quello di acquisire consapevolezza del problema e del fatto che esso non
dipende da proprie colpe, come spesso il contesto tende a fargli pensare. È
particolarmente importante fare riferimento ad altre risorse extralavorative e,
in misura preventiva, non investire tutta la propria vita sul lavoro. È utile
sapere che rabbia, impotenza, senso di colpa e disperazione possono essere
molto forti e che un aiuto professionale può essere utile anche dopo che la
situazione è cambiata, dal momento che i segni di lunghi periodi di mobbing
possono rappresentare dei veri e propri traumi che feriscono la propria
sicurezza e la propria autostima.